Continua il viaggio nel mondo contadino e delle credenze popolari. L’appuntamento di oggi è dedicato alla famosa favola del “munaciedd’”, conosciuta non solo in molti paesi del Vallo di Diano ma dell’intero sud Italia.
In passato, al termine di una faticosa giornata di lavoro, magari in una gelida serata invernale, le antiche famiglie patriarcali si riunivano intorno al focolare e, privi dei moderni mezzi di intrattenimento, sicuramente più legati alle tradizioni della famiglia, narravano storie e favole ai più piccoli.
È questo il caso del “munaciedd”, un folletto molto dispettoso, con le sembianze di un bambino, vestito da monaco e con un cappellino rosso a cui è molto legato. I monacelli, secondo la credenza popolare, non sarebbero altro che bambini morti prima di ricevere il battesimo, quindi il loro animo, rimasto inquieto, girovaga per tutta la vita intorno ad una famiglia sia facendole i dispetti e sia proteggendola, ponendosi o accanto al focolare o ai piedi della “naca” (culla).
Anche Carlo Levi nel suo libro “Cristo si è fermato ad Eboli” ne parla descrivendoli così “I monachicchi sono esseri piccolissimi, allegri, corrono veloci qua e là, e il loro maggior piacere è di fare ai cristiani ogni sorta di dispetti”.
“U munaciedd”, infatti, è famoso nell’immaginario popolare perché si diverte a fare il solletico a chi dorme o a saltargli addosso, infatti i nostri bisnonni narravano che se di notte si avvertiva la pesantezza di stomaco è perché il monachello vi ci saltava sopra, faceva anche cadere panni stesi, piatti o tirava i capelli.
Per ingraziarselo gli si potevano donare delle scarpe o lasciare dei sassolini con cui giocava, in cambio si credeva donasse una moneta d’oro, o indicava alla famiglia dove fossero nascosti dei tesori. Lo si poteva anche ricattare rubandogli il cappello, questo infatti era il suo oggetto più prezioso e se perso piangeva e correva fino a quando lo avrebbe ritrovato.A Casalbuono si narra che, nei pressi della caserma, un uomo fosse caduto da un muro e dopo la morte riapparisse nelle sembianze di monaciello.
In genere, come già detto però, è lo spirito di un bambino che vive in famiglia e chi ha la fortuna di incontrarlo si dice faccia fortuna. Per ottenere il denaro però bisogna rubargli il cappello e, come si credeva a Montesano e Sala Consilina, nascondere il pollice sotto il palmo della mano altrimenti “u munaciedd” lo tagliava.
Il popolo, per farsi dire dove erano i tesori gli diceva: “munaciè munaciè, quatt’rita cumm’a te” e se il folletto aveva brutte intenzioni bisognava fare tredici croci di canna e appenderle intorno alla casa dicendo “è assut lu munaciedd’ lu munaciedd’ com’ca zomba vatinn’ munaciedd’ca tririci croci t’anno fatt’”.
A Buonabitacolo invece, per impedire che entrasse nelle case, la gente tappava i buchi delle serrature.– Sara Maggio – ondanews –
In passato, al termine di una faticosa giornata di lavoro, magari in una gelida serata invernale, le antiche famiglie patriarcali si riunivano intorno al focolare e, privi dei moderni mezzi di intrattenimento, sicuramente più legati alle tradizioni della famiglia, narravano storie e favole ai più piccoli.
È questo il caso del “munaciedd”, un folletto molto dispettoso, con le sembianze di un bambino, vestito da monaco e con un cappellino rosso a cui è molto legato. I monacelli, secondo la credenza popolare, non sarebbero altro che bambini morti prima di ricevere il battesimo, quindi il loro animo, rimasto inquieto, girovaga per tutta la vita intorno ad una famiglia sia facendole i dispetti e sia proteggendola, ponendosi o accanto al focolare o ai piedi della “naca” (culla).
Anche Carlo Levi nel suo libro “Cristo si è fermato ad Eboli” ne parla descrivendoli così “I monachicchi sono esseri piccolissimi, allegri, corrono veloci qua e là, e il loro maggior piacere è di fare ai cristiani ogni sorta di dispetti”.
“U munaciedd”, infatti, è famoso nell’immaginario popolare perché si diverte a fare il solletico a chi dorme o a saltargli addosso, infatti i nostri bisnonni narravano che se di notte si avvertiva la pesantezza di stomaco è perché il monachello vi ci saltava sopra, faceva anche cadere panni stesi, piatti o tirava i capelli.
Per ingraziarselo gli si potevano donare delle scarpe o lasciare dei sassolini con cui giocava, in cambio si credeva donasse una moneta d’oro, o indicava alla famiglia dove fossero nascosti dei tesori. Lo si poteva anche ricattare rubandogli il cappello, questo infatti era il suo oggetto più prezioso e se perso piangeva e correva fino a quando lo avrebbe ritrovato.A Casalbuono si narra che, nei pressi della caserma, un uomo fosse caduto da un muro e dopo la morte riapparisse nelle sembianze di monaciello.
In genere, come già detto però, è lo spirito di un bambino che vive in famiglia e chi ha la fortuna di incontrarlo si dice faccia fortuna. Per ottenere il denaro però bisogna rubargli il cappello e, come si credeva a Montesano e Sala Consilina, nascondere il pollice sotto il palmo della mano altrimenti “u munaciedd” lo tagliava.
Il popolo, per farsi dire dove erano i tesori gli diceva: “munaciè munaciè, quatt’rita cumm’a te” e se il folletto aveva brutte intenzioni bisognava fare tredici croci di canna e appenderle intorno alla casa dicendo “è assut lu munaciedd’ lu munaciedd’ com’ca zomba vatinn’ munaciedd’ca tririci croci t’anno fatt’”.
A Buonabitacolo invece, per impedire che entrasse nelle case, la gente tappava i buchi delle serrature.– Sara Maggio – ondanews –