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Violenza contro le donne. La storia di Francesca:“Ho trasformato il mio dolore in missione per aiutare le altre”

25 Novembre 2022

Da una storia di violenza nasce la voglia di tendere la mano a tutte le donne in cerca di aiuto. E’ questa la missione di Francesca Zimatore, 29enne calabrese in passato vittima di violenza che oggi, grazie anche al supporto di Luca, l’uomo che per amore di lei ha lasciato la tonaca, ha dato vita a DaMe, il progetto di Housing sociale che accoglie donne, ragazze e i loro bambini in difficoltà.

In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne Francesca ci ha gentilmente concesso un’intervista in cui racconta la sua esperienza passata e la sua rinascita.

  • Francesca, da una personale esperienza di violenza è nata la tua voglia di aiutare le altre. Puoi raccontarci cosa ti è accaduto?

Non si diventa mai “ex vittime”: è una condanna che non lascia più scampo, per tutta la vita. Questa mia storia inizia all’età di 15 anni, quando il mio primo amore si trasforma in una
trappola e io mi ritrovo catapultata in un legame opprimente, aggressivo, minaccioso, che è diventato violenza psicologica e coercizione e stalking. A quel tempo non esisteva la legge Codice
Rosso e non era riconosciuto il reato di stalking, non si era preparati alla tutela e c’era una frase che risuonava in ogni luogo: “Non possiamo farci niente”. Non comprendevo alcunché di ciò che mi stava capitando e non potevo immaginare ciò che mi sarebbe capitato. A 15 anni l’angoscia iniziò lentamente ad abitare tutte le mie giornate, al pari della sua presenza imprevedibile e improvvisa: attenzioni indesiderate, litigi forti e doni assillanti, poi pedinamenti, appostamenti, un telefono che squillava di continuo, messaggi minatori e foto rubate, identità rubata e controllo, il vuoto intorno e la sua ombra presente. Quali vie esistono per sottrarsi a tutto ciò? Quando gli eventi precipitarono ho sospeso la mia vita, per provare a sospendere un pericolo così fuori controllo. Ho sospeso la mia vita e l’ho rinchiusa dentro casa, per tenermela stretta, per non perderla definitivamente. Ho sospeso la mia vita per evitare il peggio. Ho sospeso la mia vita e non l’ho raccontato a nessuno, e nessuno se n’è voluto accorgere. Nessuno mi ha offerto un’alternativa e io ne ho trovata una: resistere così. Finchè la sua ossessione non passò. Cinque anni dopo. Circa. Di quei miei anni giovani non ricordo uscite a sera, feste di compleanno, gite scolastiche; non ci furono più compagni di scuola e amici, non ci furono compagnie e corse felici; non ci fu la festa dei miei 18 anni e non ci fu festa per la mia maturità; non ci fu più condivisione e non ci fu più libertà. Esisteva soltanto la scuola, poco accorta anch’essa. Tutto il resto era una cameretta in cui ero costretta a sopravvivere. Quando a vent’anni il tempo della violenza si allentò, ho dovuto rimparare a vivere: a camminare, a respirare, a guardarmi intorno, a parlare con gli altri, a fidarmi di uno sguardo. Tutt’ora mi tocca imparare a sopravvivere agli attacchi di panico, alla malinconia del tempo perduto, all’angoscia del dolore che non passa. Ma qualcosa, oggi, sublima il dolore in missione: chi, più di chi si è salvato, può salvare? È per questa missione che sono sopravvissuta: per raccontare cosa è la violenza, per mostrarne l’invisibile, gli aspetti subdoli non noti dentro le teorie ma che soltanto l’esperienza può conoscere, per offrire gli strumenti necessari a riconoscerla quando ancora si è in tempo e per offrire concretamente una possibilità di rinascita alla vita di ogni donna, quando la tempesta della violenza è finalmente finita, quando intorno a sé ci sono soltanto macerie, ma dentro sé si vuole ancora vivere.

  • Dalla tua sofferenza ha preso vita DaMe, l’housing sociale per donne vittime di violenza o in difficoltà con sede a Crotone. Di cosa si tratta nello specifico e che servizi offre?

Uno dei ricordi più tormentati che ho di quegli anni è non sapere da dove ripartire. Credo non lo sappia nessuno. Passata la tempesta, da dove si rinasce? Da dove si riprende un posto nel mondo? Come ci si lascia rifiorire? Perciò, per le altre, desiderai occuparmi proprio di questo tempo e della sua importanza vitale. Coltivai un sogno di luce nel buio della vita e oggi quello che era un sogno è una realtà: si chiama “DaMe”. DaMe è un Social Housing. Non una casa rifugio, non una casa d’accoglienza, non una struttura assistenziale: è un grande appartamento condiviso tra ragazze con esperienze diversissime alle spalle tutte accomunate dall’obiettivo di mettersi in gioco e rifiorire. È perciò che nell’Housing “DaMe” non vi sono soltanto spazi e camere private, ma soprattutto zone comuni dove incontrarsi e partecipare a percorsi condivisi, accessibili anche e soprattutto all’intera città. Oltre al piano delle camere private, infatti, a piano terra della residenza, che si divide su tre piani, c’è lo Spazio Educativo “Zia Mariù” che supporta i bambini ospiti e coinvolge i bambini di tutta la città, da 0 a 12 anni; e c’è una Casa di quartiere, che chiamiamo “Casa di Città”, le cui sale sono a disposizione di chiunque voglia tenere corsi, eventi, workshop, percorsi formativi, di benessere e momenti conviviali che risultano essere gratuiti per le donne che abitano “DaMe”, nonché aperti alla partecipazione di tutta la cittadinanza e di chi è di passaggio. Noi di “DaMe” crediamo che il primo passo verso la ripresa della propria vita non sia un’assistenza, ma una partecipazione vera e attiva a quelle occasioni belle e buone che sono frequenti nella quotidianità di chi non ha difficoltà esistenziali e che invece risultano lontane da cogliere per chi ha paure, timori, insicurezze, solitudine, diffidenze relazionali e difficoltà d’ogni tipo. “DaMe” è una grande Casa che desidera arricchirsi sempre più di servizi e occasioni, che nasce come una porta aperta svincolata dalla burocrazia, per non essere più sole. Il percorso abitativo può durare un anno, ricco di esperienze e di rinascita personale e comunitaria, per allontanarsi dai tantissimi tipi di violenza che esistono: familiare, sociale, economica, psicologica, fisica.

  • Un grosso aiuto te lo ha fornito Luca, l’uomo che si è spogliato della tonaca dopo essersi scoperto innamorato di te.

Ci sono incontri felici e ci sono incontri infelici. L’incontro con Luca è stato l’incontro felice della mia vita. Anzi, con don Luca. Andai da don Luca per ricevere i sacramenti, che fino a 24 anni non avevo mai ricevuto per un dono di libertà lasciatomi in eredità dai miei genitori. Desideravo ardentemente ricevere i sacramenti per ringraziare la fede che, in tantissimi anni d’inferno, mi aveva sorretta. Non esiste un modo univoco di affrontare il dolore: il mio modo è stato resistere, provando a non lasciarmi fagocitare. Pregare non era una supplica per allontanare da me ciò che stavo vivendo: io chiedevo soltanto di avere la forza di resistere, di non rispondere alla violenza con altra violenza, di non lasciare che il dolore divorasse il perdono che provassi. Ero certa che in quel modo ne sarei uscita. E ne sarei uscita migliore: venendo alla luce. E luce fu. Con don Luca iniziò il percorso catecumenale che mi portò al battesimo, nella notte più splendente di sempre: la notte di Pasqua. Il mio desiderio più grande era lasciarmi vestire dai sacramenti, prendere dentro di me il Verbo e, unendomene per sempre, portarlo ovunque. Quella notte ho ricevuto i sacramenti in una cerimonia indimenticabile. Erano anni che non vedevo gente intorno a me e, quella notte, eravamo tutti lì a pregare, a cantare, a celebrare insieme la risurrezione. Ho vissuto la risurrezione anche io quella notte di Pasqua. Dopo quella notte ho continuato a condividere con Luca l’amore per quella vita ritrovata: nei mesi successivi abbiamo scelto di stendere la bozza del progetto di Housing che oggi abbiamo realizzato insieme. E, nei mesi che seguirono ancora dopo, ci siamo ritrovati a condividere una luce nuova negli occhi e nel cuore. Un’altra prova della vita, un’altra prova difficile della vita, ma questa volta bellissima. Un amore. Mi chiesi il perché di un’altra prova così complessa, ma la verità è che non fu difficile. L’amore vero è una cosa semplice: semplicemente tende al bene e lo raggiunge. Testa alta e cuore in mano: questo è Luca. La sua pronta onestà e il suo sorriso mi hanno donato l’agio di affrontare nuovi percorsi difficili senza fatiche dell’anima. Nella sua scelta coraggiosa mi ha donato tutto ciò che avesse e gliene sono grata, nonostante la rinuncia alla sua vita sacerdotale lasci ancora in me una latente malinconia. La riduzione allo stato laicale, cui i sacerdoti sono tenuti, è in dissonanza con la medesima profusione di bene, le medesime intenzioni, la medesima abnegazione che si continua a donare agli altri, in egual modo, anche senza abito talare. Noi, nel nostro piccolo, desideriamo mostrare come il bene possa continuare a vivere e ad essere vissuto, come per il prossimo così per noi.

  • Se dovessi scavare tra tutte le storie di donne in difficoltà che si sono rivolte a te, qual è quella che ti ha colpita di più?

Era il 24 dicembre 2020 quando la prima donna venne accolta nell’Housing “DaMe”. Il Covid stava rallentando la nostra apertura, la burocrazia era bloccata e le persone soccombevano alle
procedure, alle lungaggini, alle crisi. Non volevamo questo, non a Natale. Non poteva essere chiusa la porta di DaMe, a Natale, per chi bussava. Così, aprimmo: porta, tavola, cuore. Ne sono passate tante di storie, da allora, in Housing: storie di chi ha vissuto in Housing e di chi non l’ha abitato, ma è stata ugualmente sostenuta da tutta la nostra grande équipe in percorsi
esterni amministrativi, medici, sociali, lavorativi. Abbattere i confini, essere sulla soglia, dire semplicemente sì: è la cosa più difficile del mondo, ma è l’unico modo per aiutare veramente gli altri, senza lasciarli attendere nel proprio destino. Perché il tempo è prezioso ed è sufficiente un giorno in più di attesa per non poter più salvare chi può essere ancora salvato. Contiamo centinaia di persone all’anno che si rivolgono a noi per un aiuto immediato e concreto, dei più svariati, da tutta Italia e anche da fuori Italia. Lavoriamo molto con i social, per fare rete ed essere in connessione. E viviamo fianco a fianco. Le storie più belle sono tutte: è la storia di una ragazza che ha ripreso gli studi e ora si sta laureando; è la storia di un’altra ragazza che si è sentita incoraggiata a intraprendere un percorso di transizione, lasciandosi finalmente sbocciare; è la storia di una donna che, lavorando in nero da anni e anni, non poteva ottenere il vaccino anti-Covid perché non aveva i documenti né la possibilità di farli e che oggi ha finalmente un documento, un contratto, i vaccini e un medico; è la storia di una ragazza che, uscita dalla casa circondariale, ha trovato il suo posto nel mondo lavorando onestamente; è la storia di una mamma che può frequentare un corso di formazione, perché la bimba non è più sola; è la storia delle mamme e dei bambini rifugiati di guerra, non ultima quella in Ucraina, che hanno trovato qui riparo e conforto e famiglia; è la storia di chi, ogni giorno, si accosta a questo spazio aperto e, frequentandolo informalmente e liberamente, trova il coraggio e la forza di voler riscattare la propria dignità. Sono storie, tutte diverse, di coraggio: perché sganciarsi e mettersi in gioco non è semplice. Chiudere la porta di casa propria per abitarne un’altra non è immediato. Ci vuole una dose di audacia. Una audacia che reca salvezza. Infine, ci sono storie di giovanissimi ragazze e ragazzi (siamo anche centro aggregativo informale di giovani) che, ascoltando e vivendo le vite degli altri, imparano a discernere il bene dal male e si vestono del coraggio di chiedere aiuto e del coraggio di offrirlo. Ragazze che, soltanto così, non sono precipitate in una spirale torbida di violenza. E ragazzi che, soltanto così, hanno compreso che l’uomo è uomo quando ama.

  • Qual è il primo atteggiamento che suggerisci di tenere alle donne che dovessero trovarsi in difficoltà o subire violenze?

La prima possibilità di salvarsi è riconoscere: ascoltare chi sensibilizza e prestare attenzione a chi ne parla è il primo passo perché una situazione nuova e misteriosa possa essere riconosciuta nelle sfaccettature subdole che nasconde. La seconda regola è parlarne. Circondarsi di persone fidate e parlarne. Non avere paura e soprattutto non provare vergogna. La vergogna è quel sentimento che scatta nella mente e nel cuore di ogni vittima di violenza, di soprusi, di umiliazioni, di manipolazioni e di solitudine. La colpevolizzazione di una vittima produce un senso di colpa che fa sentire la vittima colpevole. Questo accade perché la donna vittima di violenza diventa vittima di giudizio. Il giudizio che la donna sente addosso proviene da ogni lato della sua vita: dalla furia manipolatrice del violento, dal ciclo stesso della violenza, da se stessa e, non ultima, dalla società in cui vive. La vittimizzazione secondaria è un ulteriore aspetto: una volta che una donna decide di parlare di ciò che sta subendo, essere creduta è un percorso difficilissimo. La paura che vive, la manipolazione che vive, la poca libertà che vive, portano la donna a sembrare ambivalente: gli amici, i familiari, finanche gli operatori del settore non riescono a comprendere e a gestire l’alternanza della donna tra il denunciare e il minimizzare i fatti. Ciò va ad influire sulla credibilità della donna. Quella che viene definita “ambivalenza”, in verità, è un normale comportamento che ogni vittima assume e questo accade per molteplici motivi: la donna prende consapevolezza della violenza in modo graduale, poiché il male ricevuto è un male inaspettato e doloroso da accettare e riconoscere; a momenti di tensione si alternano momenti di riappacificazione – ciclo della violenza – e la donna può decidere di dare una nuova opportunità al proprio carnefice nella illusione di un cambiamento; gli atteggiamenti dubbiosi di chi le sta accanto non le offrono sicurezza. Accade perciò che, accanto alla vittimizzazione primaria, esistono tali ulteriori conseguenze: le vittimizzazioni secondarie, ovvero quelle situazioni in cui le donne diventano vittima una seconda volta. Oggi, poi, esistono nuove forme, terribili, della violenza, cosiddette cyber: la violenza che corre dietro gli schermi, anonima, subdola ed esageratamente diffusa. Tuttavia, ultimamente, si parla molto più di violenza e c’è una accelerazione dei processi di consapevolezza, del riconoscimento di reati e del sostegno alle vittime. Questo lascia ben sperare e mi dà l’agio di dire alle donne che devono parlarne. Parlare non significa già denunciare: significa innanzitutto confrontarsi, non accettare situazioni scomode, sapersi preziose. Rivolgersi ai familiari, agli amici, ai centri. Se si previene in tempo, si potrà non correre ai ripari in seguito. Una terza regola occorre, infine, darla al mondo: il mondo deve accorgersi della violenza. Deve riconoscere la violenza e accorgersi di chi la subisce. Bisogna squarciare l’indifferenza che risiede dentro le nostre comode vite, per rompere il silenzio. Lì dove il silenzio uccide, uno sguardo attento può salvare e una parola può raccogliere consenso intorno a sé, sconvolgendo anche gli equilibri più stabilizzati e le consuetudini più incancrenite. È una responsabilità: sovvertire le logiche maschiliste e violente. È “banalità del male”, per usare un concetto filosofico, interiorizzare consuetudini violente, che si fondano su concetti primari radicati nella nostra cultura peggiore; scardinare questa cultura significa vedere, riconoscere, rifiutare ed estirpare la violenza. Quando parlo, di fronte a una platea, di violenza e modi di prevenzione e cura, svelo una cruda verità: in quel momento preciso c’è almeno una sedia vuota lì in mezzo. E ognuno sa che è vero e ognuno può conoscere anche i motivi di quella sedia vuota: è sufficiente scomodare la propria assopita coscienza. In quel preciso momento una vittima è assente. Accade in una scuola, in una tavola rotonda, in teatro, in una comunità. Si parla di violenza nel preciso momento in cui qualcuna la sta subendo e chi la sta subendo non c’è, perché è confinata dal mondo e dalla gente. E la maggior parte di quel mondo e di quella gente ne è a conoscenza. Allora, la prevenzione e la cura alla violenza partono esattamente da lì: da quella sedia vuota da rintracciare, quell’anima sola, quella persona che ha bisogno di occhi e di mani che si accorgano di lei. Questa responsabilità, che ognuno di noi ha, di non fare finta, salva le vite umane. Tocca a ognuno di noi. Sono stanca di tutte le anime che guardano, restando indifferenti al grido di dolore e alla solitudine di un essere umano. Infine, diciamolo: la violenza sulle donne è un problema, un disagio, una malattia maschile. Ed è perciò che sono orgogliosa, fiera, emozionata di avere accanto un uomo che combatte questa lotta contro la discriminazione, la violenza, il gender gap, anche più fortemente di me.

  • Quanto è cambiata la Francesca di oggi da quella che, invece, era vittima?

Oggi sono incredula di essere ancora viva e grata. Ma anche provata e stanca. Sono stati anni in corsa e restano anni molto difficili. Affrontare le conseguenze della violenza e del dolore
personale, ricucire una vita e, intanto, affiancare ogni giorno percorsi di rinascita e spesso non avere il tempo di decomprimermi non è facile. Lotto contro le tutte le mie fragilità psicofisiche. Ma sono riconoscente infinitamente alla vita. Sono grata a chi sostiene questo progetto e soprattutto il mio cammino personale di vita, alle tantissime persone che sono rimaste da sempre, a quelle che sono tornate, a quelle che resistono nonostante il buio ancora mi inghiotta troppo spesso. Sono grata ai cuori resilienti, alla bontà tenace, alla generosità paziente. Oggi ho finalmente scoperto che ci si può fidare delle persone, che amare è bellissimo e che lasciarsi amare è rincuorante, che non si deve avere paura delle proprie fragilità, che i sogni possono realizzarsi e che ci sarà sempre chi proverà a scalfire la felicità esattamente come ci sarà sempre chi proverà a costruirla insieme. Forse, oggi, ho più timore: timore di rivivere un dolore, timore dell’abbandono, timore di essere divenuta troppo fragile e di non avere la stessa forza d’un tempo. Vorrei un tempo di vita più spensierato e più rassicurante. Ma, oggi, ho la più grande grazia che si possa avere: persone che sanno amare anche per me, quando il mio amore è stanco. E non mi sento più sola.

Per contattare “DaMe” è possibile telefonare al numero 377/0879741 o scrivere a kairosonluscoop@gmail.com

Chiara Di Miele

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